Raccontami una storia

La rivoluzione industriale del terzo millennio è certamente quella comunicativa, siamo tutti d’accordo. Il successo del marketing, della politica, delle stesse relazioni sociali si basa in larga parte sui messaggi che ci scambiamo.

Tutti comunicano, tutti hanno qualcosa da dire e quel qualcosa serve ad avvicinare clienti, elettori, utenti, in altre parole, seguito.

Raccontare e ascoltare storie è un piacere che anche i nostri antenati si concedevano.

È uno strumento che abbiamo sempre utilizzato per spiegare e spiegarci il mondo, per conquistare e incuriosire, per celebrare e anche per screditare. La narrazione è un bisogno atavico dell’essere umano. Raccontiamo storie ai bambini per farli addormentare, per spaventarli e per insegnare loro qualcosa.

Ti è mai capitato di raccontare più volte la stessa favola ad un bambino? Molto spesso è lui stesso a richiederla perché è rassicurante sapere come andrà a finire e questo gli permette di non prestare eccessiva attenzione. Se lo hai fatto ti sarai accorto che con il passare del tempo cominci a usare sempre le stesse identiche parole, fino quasi a recitare un copione. Non facciamo forse la stessa cosa quando spieghiamo al mondo chi siamo?

E se anche l’identità e il senso profondo di chi siamo fosse il risultato di una strategia comunicativa?

Se la soddisfazione e l’autostima che ricaviamo dalla nostra storia fosse legata alla “campagna pubblicitaria” di noi stessi?

Immagina di guardarti in uno specchio e di descrivere quello che stai osservando. In questo caso non esiste un interlocutore che reagisce, ci sei solo tu e lo specchio, a cui stai raccontando chi sei e come sei fatto.

Non è quello che succede nella vita di tutti i giorni?
Nella quotidianità, però, la nostra identità non è un riflesso, è più simile ad una pallina da tennis che mandiamo dall’altra parte del campo. Sul lato opposto ci sono le persone con cui ci relazioniamo, e il modo in cui la palla ci viene rilanciata dipende anche da come l’abbiamo tirata per primi. Le parole che scegliamo per descriverci contribuiscono a costruire la percezione che gli altri hanno di noi e, di conseguenza, influenzano l’immagine che il mondo esterno ci rimanda

Non raccontiamo solo chi siamo: noi siamo anche ciò che raccontiamo

Qualche tempo fa un mio cliente mentre mi parlava di sé ha cominciato a descriversi come una persona pigra, ed era realmente convinto di esserlo. La paura di scivolare nell’ozio lo portava a non fermarsi mai, ad essere sempre in movimento e a vivere con inquietudine i momenti di riposo perché considerava il suo tempo “libero” un tempo “vuoto” Quando gli ho detto che io vedevo una persona attiva e vitale che conduceva una vita piena e dinamica, ha cominciato lentamente a vedere un’altra immagine di sé e a descriversi in una maniera diversa. Questo suo nuovo modo di “pensare” se stesso gli ha permesso di godere dei momenti di riposo e a considerare il tempo libero come un dono un’opportunità, affievolendo progressivamente il senso di colpa e il timore di trasformarsi in un nullafacente, “a couch potato” direbbero gli americani.

Non è diventato un’altra persona. Non ha cambiato chi è, piuttosto ha cambiato il modo di raccontarsi, ha potuto descrivere anche un’altra parte di sé

Quando si pensa alla terapia si pensa spesso ad un aiuto per cambiare abitudini, stili relazionali, modo di comunicare e troppo spesso ci si dimentica che è anche un modo per fare pace con delle parti di noi che rifiutiamo, giudichiamo o nascondiamo, un processo trasformativo anche del nostro modo di narrare al mondo chi siamo.
Raccontare noi stessi utilizzando parole diverse, magari nuove può essere tanto utile quanto cambiare un’abitudine disfunzionale, in fondo anche usare parole diverse per raccontare la stessa favola ad un bambino è un incoraggiamento a guardare la storia da un altro punto di vista e ad imparare qualcosa di nuovo.

Raccontami una storia
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One thought on “Raccontami una storia

  • 23 Gennaio 2018 at 12:21
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    Vero. Lo sto provando sulla mia pelle…

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