In questi giorni sono in procinto di chiudere una terapia con una paziente (*) che seguo da circa 4 anni. Ci siamo arrivate, è stata dura, ci è voluto il tempo che c’è voluto, ha affrontato molti ostacoli e adesso sta arrivando il momento di separarci.
In questi anni ha portato in seduta paure, rabbia, dolori e ha dato vita a numerose parti di sé che aveva tenuto nascoste.
Da quasi un anno ci giravamo intorno, ma un terapeuta lo sa, dirsi “addio” con il cuore in pace, separarsi senza strappi, senza dolore, con gratitudine e rispetto reciproco è uno dei pilastri di una psicoterapia efficace e va fatto bene.
Quindi alla fine è arrivato quel momento e, credetemi, neanche il più esperto terapeuta ci arriva preparato.
Qualche tempo fa è arrivata in studio felice, entusiasta e incredula: uno dei sintomi che la affliggeva da tanto tempo era finalmente sparito. Mi ha raccontato felice la situazione in cui si è resa conto di avere superato quel limite e, sorpresa, ha messo in fila tutti i suoi traguardi fino a quest’ultimo.
Quando le ho detto “Bene, alla fine dunque ce l’hai fatta, hai affrontato anche questo e sei qui a raccontarmelo”, lei si è bloccata, mi ha guardata con gli occhi lucidi e mi ha detto che qualcosa di tutto questo la spaventava “Ora che anche questo è cambiato, il nostro saluto è imminente, adesso ci possiamo separare.”
I sentimenti che accompagnavano quelle lacrime erano di tristezza e riconoscenza, sentimenti naturali quando dobbiamo salutare qualcuno, dirgli addio. Insomma un processo congruo, segno che la terapia era davvero conclusa e potevamo ritagliarci le sedute necessarie a dirci quel temuto “addio”.
Alla fine della nostra ora ha pensato al figlio e mi ha detto “da quando ho cominciato la terapia anche il mio rapporto con lui è migliorato in un modo che non avevo neanche immaginato: ho fatto terapia io ma ne ha beneficiato soprattutto lui”.
Fin qui, lei.
Poi io. E questa è un’altra storia.
Ho dovuto letteralmente trattenere le lacrime, mi sono resa conto in un attimo, nello stesso attimo in cui lo ha realizzato lei, che anche io avrei dovuto affrontare quel momento, che anche io stavo lasciando andare un pezzo della mia vita, perché che ci crediate o no, un terapeuta in seduta non lavora, vive. L’ho fatto già molte volte, tuttavia ogni volta è diverso e quanto sarà difficile non lo sai fino a quando non ci arrivi.
È questo che distingue questo mestiere da tanti altri, noi non facciamo i terapeuti, noi siamo terapeuti. E non ce ne possiamo dimenticare mai, neanche un secondo.
Naturalmente ho tenuto per me quelle lacrime, perché, è vero che vivo pienamente in seduta, ma è anche vero che ho studiato molti anni e ho fatto una lunga terapia personale per riuscire ad emozionarmi senza interferire con il lavoro dei pazienti.
Proprio allora, dopo avere attraversato le mie emozioni, averle riconosciute ed averle accolte, mi è venuta in mente lei: Mary Poppins con la sua borsa e il suo ombrello.
La storia di Pamela Travers, scritta nel 1934 e divenuta un film nel 1964 grazie a Walt Disney, è famosissima: Mary arriva nella famiglia Banks sotto le vesti di una bambinaia ma in realtà, prendendosi cura dei bambini, dà al padre, Mr. Banks, la possibilità di affrontare i suoi problemi e allo stesso tempo gli dà modo di osservare come comunicare con i figli e come ascoltarli.
È una tata ma è soprattutto un modello.
Lei è la rappresentazione del terapeuta per eccellenza: cura, sostiene e accoglie, allo stesso tempo dà le regole e sta attenta che vengano rispettate.
È assertiva e dolce, canta e rimbocca le coperte ai bambini. Rimprovera senza perdere l’amore e ama senza confondersi.
Inoltre Mary Poppins va via, quando “cambia il vento”, quando ha raggiunto l’obiettivo, per dedicarsi ad altre famiglie. Sa bene che il suo compito è finito e non aspetta che le venga detto “adesso vai”, riconosce il momento, semplicemente apre il suo ombrello e vola via.
Nella scena finale il pappagallo provoca Mary indicando i due bambini che giocano con i genitori e le dice:
“Bella gratitudine per te! Non ti hanno neppure salutato! Guardali, ora stimano il padre più di quanto stimano te!”
“È così che deve essere!” gli risponde lei.
È proprio così.
Nonostante il suo immenso carisma, Mary Poppins al momento opportuno riesce a rimanere sullo sfondo. Sa bene che il suo compito non è avere l’affetto dei bambini ma essere un adulto di riferimento mentre i genitori attraversano e risolvono le loro preoccupazioni per potere tornare più sicuri, solidi e affidabili dai loro figli.
Mary Poppins è arrivata per stare con i bambini ma in realtà modifica tutto il sistema familiare, silenziosamente senza lezioni o consigli, esclusivamente con la sua presenza, rinforzando i punti di forza e sostenendo quelli deboli.
La presenza di quella tata nella famiglia Banks ha reso possibile a ciascuno di svolgere il proprio ruolo, ai bambini quello dei bambini e agli adulti quello di adulti.
Ecco perché credo che quel film dovrebbero vederlo tutti i terapeuti, perché parla di noi, di quanto sia complesso entrare nella vita di chi ci chiede aiuto, di quanto sia importante rimanere sullo sfondo e lasciare che sentano di essere loro ad avere il controllo sulla loro vita, che puoi vuol dire esserne responsabili, ma soprattutto, racconta di quanto sia difficile uscire dalle vite dei nostri pazienti mentre sono intenti a fare volare i loro aquiloni “rattoppati”, distratti dalle loro relazioni nuove o ricucite, mentre a noi non resta che osservarli in silenzio andare via, riconoscenti per quello che, seppure inconsapevoli, anche loro ci hanno donato.
Non ci resta che aprire il nostro ombrello e farci trasportare dal vento dell’est e magari utilizzare il pretesto di un articolo di fine dicembre per potere scrivere quanto ci mancheranno.
(*) per ragioni di privacy alcune informazioni sulla storia di questa paziente sono state modificate.