La nuova piazza. Dalla strada alla rete.

L’attuale panorama delle attività ludico-ricreative sta attraversando un intenso processo di trasformazione e di innovazione e a guardarlo bene rappresenta uno specchio fedele delle trasformazioni già in atto nella società, in particolare nella sua connotazione relazionale.
Il teatro, il cinema e lo sport (inteso dal punto di vista dello spettatore) sono media passivi con una potenzialità sociale e aggregativa riconosciuta e abbastanza stabile nel tempo. Il fruitore non interviene direttamente sul contenuto e questo viene “consumato” in contesti condivisi che favoriscono scambi e incontri pre, durante e post evento. Spesso assistiamo alla creazione di una ritualità che si costruisce intorno all’avvenimento stesso.
La lettura è un medium passivo e “solitario”, il suo contenuto non può essere influenzato e la fruizione è singola, si potrebbe definire intima. Qualche gamer con più primavere alle spalle (come il sottoscritto) ricorderà l’esperimento del librogame degli anni ’80 e ’90, un esempio di medium solitario e interattivo, era presente la possibilità di personalizzare il protagonista ed effettuare scelte che indirizzavano la trama e condizionavano il finale.
Il videogame è una forma di entertainment con caratteristiche uniche e peculiari, una natura che condivide solamente con giochi da tavolo e giochi di ruolo, o almeno lo è diventato per le ultime generazioni di giocatori.
Il videogioco, per molti anni, è stato un medium interattivo e solitario, escludendo i cabinati delle sale giochi o le applicazioni ludiche che prevedevano sfide o cooperazioni. Fino al recente passato la modalità principe del videogame è stata il single player e questo da un punto di vista narrativo e di profondità di contenuto è stata una benedizione che ha permesso di arrivare alla creazione di prodotti maturi, complessi, inserendo il gioco nell’universo dell’arte popolare. Il vero traguardo di quegli anni è stato rendere il medium potenzialmente toccante dal punto di vista emotivo.
Ma il single player è andato.
Anche quando è presente come modalità di gioco, il concetto stesso di singletudine non esiste più.

Da anni ormai non ha più senso parlare del videogiocare come di un’attività che si contrappone alla vita sociale.

Basta citare le piattaforme su PC (Origin, Steam, Battle.Net) e le comunità social delle varie console per capire come di solitario nel gaming ci sia ben poco.
A scuola calcio o nelle squadre giovanili, per esempio, non è raro che due “calciatori” parlino dei rispettivi progressi in FIFA, o che a scuola ci si dia consigli sulle varie build da utilizzare in un gioco di ruolo. Il gioco non è diventato solo più social nella sua fruizione ma ha creato attorno a sè un contesto di esperienza condivisa con le sempre più frequenti fiere o eventi tematici internazionali e locali.
É argomento di confronto e discussione tra gli adolescenti e siamo ormai distanti anni luce dallo stereotipo abusato del giocatore che si rifugia in un mondo fantastico per sfuggire a quello reale, del ragazzo introverso che ha trovato nel videogioco l’unico possibile spazio all’espressione di sé.

Dal mio punto di vista, basato non solo su una concreta conoscenza del mondo videoludico (sono un gamer dai tempi di in cui si inserivano i dischi nell’amiga 500) ma anche sulla mia esperienza di terapeuta che ha ascoltato e ascolta storie e confidenze di bambini e adolescenti (e adulti!), la critica al videogame ha sempre sofferto di una fondamentale mancanza: quella di un reale interlocutore. La stessa preoccupazione di molti genitori si basa spesso su una (legittima) mancanza di conoscenze sull’argomento e sulla reale natura dell’attività che il figlio/a sta svolgendo in quel momento. Ogni forma di condanna è stata sempre arbitraria, persone senza alcuna esperienza nel settore (professionale o personale) che si rivolgono ad altrettanti “inesperti”. Il risultato è un dialogo sterile che si conclude spesso con un’irrazionale caccia alle streghe. Esiste una classificazione chiara su quali contenuti siano più adatti a determinate fasce di età (il PEGI), esattamente come esistono film sconsigliati a minori di una determinata età. La vera discussione potrebbe semmai porsi sulla modalità di applicazione di suddetta classificazione, ma questo non rende responsabile il mezzo videoludico.

La socialità del videogioco è presente in maniera massiccia, semplicemente lo è in una maniera diversa dal comune senso che siamo abituati a dare al termine “socialità”.

La classica (e banale) obiezione che si pone quando si discute di socializzazione e videogames poggia sul concetto di “virtualità”. L’assunto base di questa critica è che non parliamo di una vera e propria socializzazione perché le persone non si vedono e non si parlano. Tralasciando la presenza di webcam e di teamspeak, spesso i compagni di gioco virtuali corrispondono proprio a quelli reali, è solo cambiato il tempo, può non esserci sincronicità, è possibile giocare e poi successivamente parlarne. Ma non è forse successo a tutti di giocare da bambini a “facciamo finta che tu sei…” e di spostare in avanti il momento in cui se ne poteva parlare? E guai a interrompere il gioco, a uscire dal ruolo!

Tempo e spazio si sono trasformati, Roma e New York si sono avvicinate nel tempo pur mantenendo la stessa distanza nello spazio; la stessa cosa sta succedendo nel mondo videoludico.

Il compagno di classe non viene più a giocare a casa tua, rimane a casa sua e gioca con te. Miracoli del futuro.
Esiste una sostanziale differenza in queste relativamente nuove forme di interazione sociale, ed è legata al concetto di “corporeità”. La società moderna sta virando verso una ricontrattazione della propria dimensione corporea. Questo fenomeno è di natura globale e si riflette in molti campi dell’entertainment e dunque anche sul videogioco. Pensate al calo delle presenze negli stadi e all’aumento di abbonamenti televisivi, o alla massiccia produzione di serie TV che puntano alla fidelizzazione dell’utente e al consumo domestico, al boom dei social network e dell’internet shopping.
Il mondo è cambiato, i nostri bisogni sono cambiati, il modo di socializzare è anch’esso cambiato. Forse adesso sentiamo più forte la necessità di creare un filtro nelle relazioni che permetta di scegliere quanto e quando coinvolgere il nostro corpo, forse il tema si è spostato dal “cosa” al “come”. Il videogioco non è responsabile, come non lo sono i media in generale.

Non è il videogioco ad influenzare le nostre abitudini ma esattamente il contrario.

È frequente e comprensibile la tendenza alla deresponsabilizzazione di fronte a quello che non riusciamo a capire e quindi a controllare. A volte diamo al mezzo un potere che non ha, lo è stato con il cinema, la TV, il computer gli smartphone e i videogiochi. Tuttavia, quest’ultimo, ha risentito in particolare di una distanza generazionale tra chi ne fa uso e chi lo critica per mancanza di informazioni o esperienza diretta. Non ricordo di accuse a case editrici ree di stampare libri che favorissero l’isolamento sociale. Ma il tempo è passato e sempre più padri con un passato (e spesso un presente) da gamer stanno contribuendo a creare un ponte comunicativo tra generazioni che possano parlare la stessa lingua in ambito videoludico.
Sorrido sempre quando sento i paragoni con i “vecchi tempi”. I ragazzini di una volta giocavano a calcio in mezzo ad una strada o ad una piazza. Anche io lo facevo, la domenica pomeriggio. La porta era la serranda di un alimentari. Chiuso. Il rumore del gol era inconfondibile.
Il negoziante tornava a casa, pranzava, riposava e poi ritornava a lavorare. Quando passo adesso nella stessa piazza la serranda c’è ancora, ma è alzata perché il negozio è aperto.
Anche di domenica.
Ah, nel caso ve lo steste chiedendo, la risposta è sì: fa orario continuato.

La nuova piazza. Dalla strada alla rete.

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